COME È NATO CINACITTÀ

Tutto è iniziato con una telefonata. Era la rai. Stavano preparando un servizio sulla morte di Kurt Cobain. Volevano intervistarmi in quanto autore di un romanzo a lui dedicato. Sapere cosa pensavo sulla tesi del complotto omicida. Ero alquanto perplesso. Il programma in questione si chiamava Voyager. Ai confini della conoscenza, il classico programma sempre a caccia di misteri. Dissi che secondo me non c’è nessun mistero in un ragazzo che a ventisette anni si toglie la vita sparandosi in bocca. Non nel senso che intendevano loro, perlomeno. Per vincere le mie resistenze mi precisarono che potevo esprimere liberamente la mia opinione.

Alla fine accettai, ma non per le mille rassicurazioni della segretaria di produzione. Accettai perché l’intervista sarebbe stata registrata nella suite 541 dell’Hotel Excelsior di Roma. È il luogo dove Cobain tentò per la prima volta il suicidio, lasciando un biglietto con su scritto «Come Amleto, devo scegliere tra la vita e la morte». Lo confesso: ero mosso dalla curiosità un po’ morbosa di vedere quella suite. Mi stuzzicava però anche l’idea dell’Hotel Excelsior in sé. Dato il mio tenore di vita, non mi capita spesso di entrare in un albergo di lusso nel centro di Roma.

Giunto a destinazione fui invitato ad accomodarmi su un divano, la troupe doveva prima girare un paio di scene di raccordo. Fui lasciato in compagnia di me stesso sul divano del salottino, mentre la troupe lavorava nella stanza da letto. Non chiedevo di meglio. Non so bene cosa mi aspettassi di trovare. Fantasmi o qualcosa del genere, credo. Restai deluso. Non avvertii alcunché di particolare. Seppure le pareti di quella stanza avevano assorbito qualcosa dello spirito infelice di Kurt Cobain, o quello spirito si era dissolto col tempo o io non ero in grado di percepirlo.

Era inverno, l’impianto di riscaldamento aveva trasformato la stanza in una fornace. Così mi alzai e andai alla finestra. Fu a questo punto che accade qualcosa di strano. Qualcosa che però non aveva nulla da spartire con il fantasma di una rockstar americana ossessionata dal suicidio. Mi affaccio ed ecco la cosa strana, ecco il fantasma di Via Veneto. Sono nato a Roma, vivo a Roma, e naturalmente conosco bene Via Veneto. Ci sono passato Dio sa quante volte. Tuttavia era come se la vedessi per la prima volta. Osservare una strada dall’alto è molto diverso dal percorrerla a piedi o in auto. Per farla breve, mi affaccio e Via Veneto mi appare in forma di strada fantasma. Qualche passante inebetito dal freddo che cammina sul marciapiede. Qualche auto che procede lentamente sull’asfalto.

Immagino non sia esatto dire che mi sono affacciato su una strada fantasma. Non era deserta, in fondo. Ciò nonostante mi comunicava un profondo senso di desolazione. Gli edifici primo novecento, i caffé dai nomi francesi, i platani. Malgrado i passanti e le auto, tutto galleggiare in uno stato di assopito abbandono. D’un tratto realizzai che era sempre così che l’avevo vista, triste in quel modo innaturale che è tipico dei luoghi abbandonati. Compresi inoltre che a comunicarmi quella sensazione era il fantasma di un tempo ormai andato, il tempo in cui Via Veneto era una festa all’aperto e i divi del cinema sfolgoravano sotto il flash dei paparazzi.

Ragioni anagrafiche mi hanno impedito di ammirare tanto splendore. Ma ho davvero perso qualcosa? Mi è capitato spesso di leggere che Via Veneto non è mai stata la strada di cui si favoleggia. Sì, ci fu un certo trambusto sul finire degli anni Cinquanta, ma si trattò di una brevissima stagione. E comunque niente di così speciale, anche perché sul soglio di Pietro c’era ancora il principe Eugenio Pacelli, Pio XII, un papa risolutamente contrario all’eventualità che Roma avesse una vita notturna. Se mi dicessero che non è mai esistita nessuna età dell’oro denominata «Dolce vita» ci crederei. Tutte le età dell’oro non sono che epoche immaginarie, mere emanazioni di desideri collettivi. Perché mai la Dolce vita dovrebbe fare eccezione?  In fondo, è del titolo di un film che stiamo parlando.

Fu allora, perso in simili considerazioni, che l’idea di un romanzo su Roma iniziò a prendere corpo. In effetti, era da parecchio che ci giravo attorno ma avevo sempre desistito. La Città Eterna non è un luogo qualunque. Pensare di poterla modellare a proprio piacimento è da pazzi. Ma io ero proprio questo che volevo: o la racconto come piace a me o niente. Consapevole che correvo il serio rischio di uscirne con le ossa rotte avevo sempre optato per il niente. Ora, però, intravedevo una possibilità. Contemplando Via Veneto dall’alto della mia suite all’Excelsior mi resi conto che Roma poteva essere assai più piccola dei suoi tanti ed enormi miti. Intuii che il suo segreto consisteva proprio nel fatto di essere essenzialmente mito. La cosa davvero eterna di Roma è la sua imperitura decadenza, il suo sonnecchiare paciosa all’ombra di se stessa. Non esiste nessuna grande Roma, a parte il suo fantasma. Di cosa avevo paura, dunque? Di una chimera?

Sono consapevole che la verità è un po’ più complessa di come mi apparve quel giorno. Ma non era di verità che avevo bisogno, bensì di una buona ragione per osare con l’immaginazione, e la perenne decadenza di Roma lo era. Mi figurai allora un uomo non più giovane, in piedi, alla finestra di quella suite dell’Excelsior. Lo vidi stordito dal caldo, lo sguardo perso nel vuoto, come pensasse a qualcosa che ha perduto e forse nemmeno mai avuto. Era un uomo destinato al declino e alla caduta, come il luogo in cui abitava.

Capii che mi era appena apparso il mio romanzo romano. Perché è così che si comincia, con un’immagine. Certo, c’è bisogno di una storia e di personaggi che la vivano. Ma quando si ha disposizione un’immagine, il più è fatto. Il resto viene da sé, interrogando quella visione. Chi è quell’uomo? Perché abita all’Excelsior? E a cosa pensa contemplando Via Veneto? Sapevo bene che le risposte non sarebbero state immediate. Scrivere un romanzo non è mai una passeggiata, i dubbi e lo scoramento sono sempre in agguato. La tentazione di mollare tutto, pure. Ma proprio per questo è importante avere un centro, un’immagine in cui credere e alla quale poter tornare. 

Siccome l’uomo alla finestra ero io decisi di modellare il personaggio su di me. L’ho fatto senza alcun intento autobiografico, ma soltanto perché era più facile descrivere qualcuno che già conoscevo. Non c’era motivo di complicarsi la vita più del necessario. Il mio obiettivo era la temibilissima chimera della Città Eterna, che alla fine ho dipinto come un luogo sull’orlo dell’apocalisse. I cambiamenti climatici l’hanno resa un inferno. Fa talmente caldo che di giorno si dorme e la notte si vive. Invertire i ritmi non è però bastato a impedire un esodo in massa verso un nord più fresco e prospero. Così sono rimasti soltanto gli stranieri, i nuovi barbari, quelli che nel linguaggio odierno si chiamano extracomunitari.

Spopolata e abbandonata a se stessa, Roma è finita nelle mani della comunità più ricca e operosa. La Città Eterna è diventata Cinacittà. L’Hotel Excelsior è uno scalcinato condominio amministrato da un petulante cinese dalla testa pelata e rotonda come una palla da biliardo. Via Veneto brulica di orientali e al posto degli eleganti caffé di un tempo ci sono squallidi negozi che vendono spaghetti di soia, vestiti scadenti e altra robaccia inutile. Come si vede, per un romanziere non è poi così difficile sbarazzarsi di un grande mito come la Dolce vita.

Ma cosa intendevo fare con questo scenario da fantascienza apocalittica? Mostrare il disastro che ci aspetta? La verità è che quando si lavora di fantasia non si è mai consapevoli di dove si sta andando a parare. Da bambino adoravo i film catastrofici, quelli in cui la Terra è un cumulo di macerie e le scimmie hanno preso il potere. Se mi si chiedeva cosa mi sarebbe piaciuto fare da grande, non avrei risposto il calciatore. Avrei detto: il sopravvissuto della terza guerra mondiale. Mi sembrava fichissimo essere l’ultimo uomo rimasto sul pianeta. Infatti, il mio protagonista si trova benissimo in questa Roma allo sfascio. Vive in un albergo di lusso, seppur decaduto, e si illude di poter campare di rendita con la liquidazione del lavoro che ha perso. Ovviamente, finirà per mettersi nei guai ed è questa la ragione per cui mi apparve così pensieroso mentre guardava fuori della finestra.

La direzione verso cui stavo muovendo mi si è chiarita parlando con gli amici. Quando gli confidavo quale genere di libro avessi in mente, la reazione immediata era sempre la stessa: «Ti dico io qualcosa d’interessante sui cinesi». Al che l’interlocutore mi rifilava le solite storie, tipo quella che i cinesi non muoiono mai, che nascondono i cadaveri per poter riciclare i permessi di soggiorno, ché tanto sono tutti uguali e nessuno si accorge dello scambio. Se mi mostravo perplesso, subito l’amico mi assicurava che lo sapeva per certo. «Me l’ha detto un carabiniere». Oppure: «L’ho letto su un libro». E purtroppo è vero: di libri che raccontano simili fesserie ce ne sono.

Il fatto è che stavo scrivendo un romanzo sulle nostre paure. Temiamo i romeni perché stuprano le donne, gli zingari perché rubano i bambini e gli africani perché spacciano la droga. I cinesi  li temiamo perché ci appaiano una comunità misteriosa e impenetrabile, dedita a loschi e fumosi affari. La diffidenza nei riguardi dello straniero non è che un riflesso della neonata ossessione per la sicurezza. Criminalità e immigrazione sono soltanto la superficie, increspature di un mare nei cui abissi si nasconde una triste realtà: siamo diventati un paese pauroso. Ma non dobbiamo farcene una colpa. È che siamo il paese vecchio del mondo. Culturalmente e anagraficamente. Ed è tipico dei vecchi aver paura. Anziché preoccuparci tanto della sicurezza, dovremmo pensare a cercare di svecchiarci un po’.

Siccome il mio scopo era soltanto quello di scrivere un romanzo non mi sono preoccupato di trovare l’esilir per una nuova giovinezza. Mi sono limitato a usare le nostre paure quale sfondo per una storia. Ho scritto un po’ a Bangkok e un po’ a Roma, spesso seduto nei bar dell’Esquilino, il quartiere in cui vivo, la chinatown romana. O cinacittà, come preferisco chiamarla. Un giorno si è avvicinata una ragazza cinese per sapere cosa stavo facendo. Gliel’ho spiegato. Lei mi ha squadrato corrugando la fronte e ha detto: «Perché tu scrivi Cina? Cosa ne sai tu Cina? Tu scrivi Cina teoria, ma pratica? Io pure brava teoria, poi pratica…» Come spiegarle che era proprio questo il bello?

Roma, settembre 2008

Tommaso Pincio